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Chirurgia mini-invasiva: prospettive
evidence-based
Intervista a Pedro Berjano, Ortopedia e Traumatologia
Clinica Zucchi, Monza
Il primo corso di Chirurgia Protesica dell'Anca Basata sulle Prove si è svolto
a Roma; si è parlato anche delle tecniche di chirurgia mini-invasiva.
Quali sono i vantaggi di queste nuove tecniche di intervento?
La caratteristica principale della chirurgia mini-invasiva è ridurre
il danno tissutale favorendo quindi un recupero più veloce. L'idea
su cui si basa, infatti, è di evitare al massimo che i tessuti
non oggetto di intervento vengano danneggiati; tuttavia il ricorso alla
chirurgia mini-invasiva, che frequentemente implica modalità particolari
di accesso, non può essere motivato unicamente dal miglior risultato
estetico o dal recupero più veloce. L'uso di queste tecniche non
potrebbe essere accettato se comportasse, rispetto all'intervento tradizionale,
una diminuzione di efficacia o un aumento dei rischi. In questo senso
la chirurgia meniscale rappresenta un esempio paradigmatico: grazie alle
nuove tecniche il classico intervento in artrotomia è stato sostituito
da due o tre incisioni puntiformi, quanto necessario alla innovativa
strumentazione basata su microcamere video. Va sottolineato che oggi
le tecniche artroscopiche in chirurgia meniscale non solo raggiungono
gli stessi risultati delle tecniche tradizionali con una riduzione del
rischio di complicanze, ma spesso li superano.
Le tecniche mini-invasive per la protesizzazione dell'anca sono
state sviluppate negli anni 90. Il congresso annuale della American
Academy of Orthopaedic Surgeons (AAOS) nel 2003 è stato il palcoscenico
in cui queste tecniche sono state presentate con grande risonanza al
pubblico e alla comunità ortopedica. In cosa consistono?
Le tecniche mini-invasive per la protesizzazione dell'anca sono
di due tipi: con mini-accesso singolo posterolaterale o laterale diretto
e con doppia incisione.
La tecnica con mini-accesso singolo posterolaterale o laterale diretto è equivalente
a un accesso tradizionale con la differenza di una minore lunghezza di incisione,
tra 6 e 10 cm, e di una disinserzione muscolare più limitata. In pazienti
magri la tecnica può essere eseguita anche attraverso lo strumentario
comunemente utilizzato o apportando piccole modifiche con incisioni lunghe
10 cm. In pazienti più robusti o per effettuare incisioni di dimensioni
più ridotte è necessario uno strumentario modificato.
La tecnica mini-invasiva con doppia incisione, consiste in un'incisione anteriore
lunga circa 5 cm e in una laterale o posterolaterale lunga 2-3 cm: la prima è necessaria
per eseguire l'osteotomia femorale e preparare l'acetabolo, la seconda per
preparare il canale femorale e inserire lo stelo. La tecnica è stata
descritta con assistenza fluoroscopica per la preparazione dell'acetabolo e
del femore.
Entrambe le tecniche riducono il danno ai muscoli che controllano i movimenti
dell'anca e quindi favoriscono una ripresa immediata dei movimenti attivi e
del carico. Alcuni centri hanno eseguito sistematicamente queste tecniche dimettendo
l'80 per cento dei pazienti con meno di 2 notti di ricovero dopo l'intervento.
La letteratura su entrambe le tecniche mini-invasive è ancora
scarsa; quali sono le evidenze disponibili?
Rispetto all'accesso mini-invasivo singolo posterolaterale o
laterale diretto, disponiamo soltanto di studi controllati non randomizzati
e gli esiti valutati, ossia il sanguinamento perioperatorio o lo stato
funzionale nei primi mesi, sono per lo più secondari; mentre i
dati relativi ai risultati clinici più rilevanti, come la non
sopravvivenza della protesi, capacità funzionale nel lungo termine
o incidenza di lussazione, sono ancora pochi.
I vantaggi segnalati in modo eterogeneo da questi studi sono una riduzione
nelle richieste trasfusionali, un recupero funzionale più veloce, con
risultati simili alla tecnica tradizionale dopo un anno, o un elevato numero
di pazienti dimessi in tempi molto brevi (meno di 24 ore).
Anche per quanto riguarda la doppia incisione gli studi a nostra disposizione
sono di modesta qualità metodologica e i risultati si riferiscono ad
aspetti, quali minore perdita ematica e minore incidenza di claudicazione nel
breve termine, di rilevanza clinica modesta.
Alla luce di queste osservazioni, quali sono le difficoltà che
si incontrano nel produrre evidenze riguardo l'efficacia della chirurgia
protesica?
Le ricerche realizzate fino ad oggi sono in genere deboli dal
punto di vista metodologico. L'ostacolo principale è realizzare
degli studi randomizzati: non tutti i chirurghi e non tutti i pazienti
accetterebbero di stabilire casualmente il tipo di intervento da eseguire
tra due opzioni. Purtroppo, solo attraverso gli studi randomizzati sarebbe
possibile valutare l'effetto di queste nuove tecniche. È ormai
riconosciuto che per un nuovo intervento o farmaco testato con studi
non randomizzati, il beneficio dimostrato è superiore a quello
che si identificherebbe attraverso ricerche di ottima qualità.
Questo vuol dire che una nuova tecnica valutata con uno studio di bassa
qualità ottiene sempre dei risultati più promettenti rispetto
a quelli che otterrebbe con ricerche di buona qualità.
La seconda difficoltà è collegata non alla ricerca ma all'applicazione
delle sue conclusioni. Gli studi su nuove tecniche eseguite in centri di eccellenza,
da chirurghi molto esperti e motivati, e che hanno seguito un elevato numero
di casi, potrebbero non essere applicati ad altri ambiti clinici. Le stesse
tecniche potrebbero non rendere uguali risultati se eseguite da chirurghi meno
esperti, in centri non specificamente dedicati o con un minore numero di casi.
Inoltre i pazienti che si rivolgono a centri specializzati spesso sono persone
più motivate, con più risorse, più sostegno sociale e
familiare, rispetto ai pazienti che si rivolgono a centri periferici o comunque
non specializzati; in genere si tratta di anziani, persone deboli dal punto
di vista socioeconomico o culturale, meno motivati e in fasi più avanzate
della malattia.
Infine, gli studi pubblicati includono un numero troppo limitato di pazienti
e non consentono di valutare eventi importanti, ma poco frequenti, come le
complicanze o la revisione della protesi. Infatti, per confrontare correttamente
l'incidenza di questi esiti c'è bisogno di prendere in esame un numero
assai elevato di pazienti: minore è la frequenza di un evento, più è elevato
il numero di pazienti necessario per dimostrare una differenza rilevante tra
due trattamenti.
Gli studi realizzati fino ad oggi hanno valutato outcome secondari
nel breve termine (capacità di deambulazione, funzionalità dell'anca,
perdita ematica ecc.); quali sono i dati clinicamente rilevanti che
gli studi dovrebbero invece verificare?
Il primo aspetto da verificare è il beneficio clinico
delle nuove tecniche di intervento. A questo proposito sarebbe molto
utile disporre di misurazioni valide, affidabili e clinicamente rilevanti
soprattutto dal punto di vista del paziente per valutarne la qualità di
vita, a questo proposito sarebbe molto utile l'introduzione dell'uso
di questionari come il Short Form with 36 questions (SF36), il Western
Ontario and McMaster Universities Osteoarthritis Index (WOMAC) o l'Oxford.
Anche per quanto riguarda le complicanze e i risultati finali di queste tecniche
mancano delle evidenze. Va rilevato, tuttavia, che questi tipi di ricerca sono
molto più difficili da realizzare, non solo perché richiedono
il monitoraggio di eventi poco frequenti come infezioni, lussazioni e ricambi
di protesi che si presentano molto tempo dopo l'intervento, ma anche perché richiedono
l'inclusione di un numero di pazienti per anno 50-100 volte superiore a quello
degli studi attualmente disponibili. Infine, un altro outcome di estrema importanza
che le ricerche dovrebbero prendere in considerazione è la soddisfazione
del paziente: si tratta, infatti, della motivazione stessa su cui poggia lo
sviluppo di tecniche di intervento mini-invasivo. In alcuni ambiti clinici
l'incisione di ridotte dimensioni, il recupero più veloce e la sensazione
di una "aggressione minore" sono preferiti al maggiore rischio di complicanze
rare. Anche in questo caso esistono dei limiti metodologici in quanto ancora
non sono stati sviluppati strumenti universali e obiettivi per poter misurare
la soddisfazione dei pazienti. Attualmente ogni approssimazione rispetto alla
valutazione della soddisfazione dei pazienti è limitata dalla scarsa
affidabilità della misurazione stessa.
Per poter mettere in commercio un nuovo farmaco è necessario
dimostrarne l'efficacia; anche per introdurre le tecniche mini-invasive
per la protesizzazione dell'anca si sarebbe dovuto attendere che ne
fosse stata provata l'efficacia?
Se queste innovazioni fossero state considerate come trattamenti
sperimentali, allora si sarebbe dovuto ritardare la loro introduzione
nella pratica clinica fino a quando non ne fossero state dimostrate l'efficacia
e la sicurezza, questo ovviamente avrebbe impedito una veloce adozione
di novità molto utili per i pazienti. In realtà sono state
introdotte come varianti minori di interventi standard, quindi senza
nessun tipo di controllo clinico in aggiunta a quelli standard. Ci sarebbe
stata una terza possibilità, che avrebbe avuto indubbi vantaggi:
introdurle inizialmente sotto protocollo sperimentale, in modo da ottenere
in tempi brevi (2-4 anni) informazioni circa gli esiti intermedi (risultato
clinico, funzionalità nei primi anni, incidenza di lussazioni
ecc.) e creare una solida base su cui impostare le ricerca sugli outcome
più rilevanti a lungo termine. Questi protocolli sperimentali,
tuttavia, sono accessibili soltanto a pochi centri presi individualmente,
ecco perché sarebbe estremamente utile la creazione di network
di clinici e ricercatori con obiettivi comuni, in grado di sostenere
l'onere della ricerca nella loro attività aumentandone l'utilità.
Indubbiamente c'è un campo vergine nel quale le società scientifiche,
e fra queste il GLOBE, potrebbero avere un ruolo importante nel potenziare
le sinergie tra alcune iniziative in atto, come i registri di protesi.
1 ottobre 2004 |
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